Primal FUGUE, 230x 140 cm, acrylics and oils on canvas, 2013. |
JOOST DE
JONGE: L’ARCHEOLOGIA DELLA PERSONALITÀ
Di Peter Frank
Non dico che la forma è
l’allegoria o il simbolo del sentimento, ma che è la sua attività propria. La
forma attiva il sentimento. Diciamo, se si vuole, che l’arte non si accontenta
di rivestire di una forma la sensibilità, ma che risveglia nella sensibilità la
forma. E ancora, non importa quale posizione assumiamo, sarà infine sempre alla
forma a cui dovremo ritornare.
– Henri Focillon (trad. Nicoletta Cuneo), Vita delle forme
La
serie di Joost de Jonge “L’Archeologia della Personalità” prende il nome,
e in qualche misura anche l’ ispirazione, dal libro pubblicato dieci anni fa
(London e New York: Routledge, 2004) di Chris Fowler. Nel suo studio Fowler considera
l’emergere di una condizione di consapevole individualità nei popoli
preistorici; e, di fatto, nei suoi quadri – come sempre, ma ora con una più
articolata autoconsapevolezza – de Jonge promuove una personalità distintiva, una
personalità derivata dall’esposizione a molte altre
personalità distintive e accuratamente formulata, e parimenti duramente
conquistata, sulla scia di tali modelli. Nello stesso tempo, de Jonge ribalta l’implicazione
semantica del titolo di Fowler: mentre Fowler, lo scienziato, osserva dal punto
di vista archeologico come la nozione di “personalità” sia emersa nell’uomo
primitivo, de Jonge, l’artista, osserva dal punto di vista artistico come una valutazione archeologica della
propria personalità venga rivelata – e nello stesso tempo oscurata, o almeno complessificata
– all’interno della propria produzione pittorica.
Ciò
non implica l’esistenza di una componente retrospettiva nella
ricerca autoarcheologica di de Jonge. Di fatto, egli esamina non tanto l’evolversi
delle proprie modalità o gesti, quanto i contesti nei quali tali modalità e
gesti sono stati generati – vale a dire, l’asserzione e l’elaborazione della
forma, e le considerazioni extraformali che l’asserzione e l’elaborazione
implicano. De Jonge, come sempre, parte dal presupposto che la poesia della
percezione di cui è alla ricerca per poterla trasformare in movimento, si trovi
non nella materia già apertamente descritta, ma nella forma stessa. Egli dà
pieno credito al potere della forma, un potere esercitato non attraverso il
riferimento o la suggestione, ma attraverso la presenza e la pura emozione.
De
Jonge, un artista insolitamente influenzato dalla musica e dalla filosofia, si
affida interamente a forme, colori e composizioni astratte, a-referenziali.
Soprattutto per confermare proprio questa dipendenza, egli ha aggiunto una nuova
qualità – più una condizione che un puro effetto – al proprio repertorio di
forme e metodi. Una volta soddisfatto nel descrivere ed elaborare le
composizioni interamente sul piano pittorico, egli ora propone di articolare questo
stesso piano “ampliandolo” con nuovi
passaggi che apportano
consistenza. De Jonge non ha modificato il proprio vocabolario
organico-geometrico, ma lo ha animato con passaggi enfaticamente contrastanti
nei quali le sue abituali tonalità vivaci e piatte lasciano il posto a nodi ed
agglomerati apportati con pennellate agitate e colori miscelati e sfumati. “La
cosa più importante per me ora è la gestualità,” ha osservato de Jonge, “il
modo in cui essa possa essere legata ad un’espressione di movimento, di
presenza umana in quanto tale, la qualità organica della pittura, la purezza
del materiale.” Con momenti apparentemente incongrui, poco chiari generati attraverso
pennellate vigorose in ogni suo dipinto altrimenti “lucido”, de Jonge
restituisce pertanto i fattori fisici del pigmento e della mano umana ad una pratica pittorica altrimenti
inerte, implicitamente smaterializzata.
Considerata
la vocazione spirituale di de Jonge, si può affermare che questi passaggi di
rugosità sul liscio reintroducono l’elemento fisico, diventato perfino profano,
in una rarefatta dimensione di contemplazione. Tale dicotomia sensitiva
caratterizza la tradizione artistica del Nord Europa, specialmente del
modernismo, considerato da sempre da de Jonge il proprio patrimonio, un filo che ho ha legato contemporaneamente all’espressionismo ed al
geometrismo, e in special modo a quegli artisti (soprattutto olandesi) che
avrebbero trovato il sacro nel profano e viceversa. Esempi di pittori così
diversi tra loro come Theo van Doesburg e Karel Appel (per nominare due
modernisti di rilievo) o Jacob Bendien e Janus de Winter (per nominarne altri due
meno conosciuti) sono serviti come punti di riferimento ideologici e spirituali
a de Jonge per compiere questa sua evoluzione. Egli analizza collezioni come
quelle del Museo Kröller-Müller, del Gemeentemuseum di L’Aia, e della
Collezione Nordrhein-Westfalen alla ricerca di qualcosa di più della semplice
ispirazione pittorica. Di fatto si potrebbero indicare questi musei, ed altri, come
le cattedrali per il suo culto. Ma nel periodo di transizione e chiarimento che
ha portato alla serie “Archeologia della Personalità” ed ora continua ad
alimentarla, tali templi dell’arte hanno rappresentato un rifugio particolare per il pittore, in quanto fonte non
solo di rassicurazione e conforto ma anche di rinnovamento.
Con
le opere della serie “Archeologia della Personalità”, l’avventura
neo-modernista di Joost de Jonge ha preso una svolta che reifica molti dei
principi e delle pratiche dell’arte moderna e ne contrasta molti altri. La
“purezza” un pensiero tanto modernista e tanto cercata nella pratica è stata abbandonata
per raggiungere un obiettivo più complesso, di elevata realtà – una realtà rimossa
dal mondano con l’astrazione ma mantenuta “reale” attraverso la variazione
fisica e visiva, marcata dissonanza all’interno dell’armonizzazione di colore e
forma. Proprio come la personalità è rappresentata da complessità e
contraddizione, così, nelle mani di de Jonge, lo è la sua archeologia.
Los Angeles Aprile-Maggio
2014
Joost de Jonge
L'archeologia dell'individualità
Robert C. Morgan
"Se è vero che non tutta la pittura è romantica, è altrettanto vero che tutta la vera pittura nasce dall'anima romantica che c'è in noi."
Robert Motherwell
Anche Joost de Jonge appartiene, secondo me, a quella categoria di artisti che lottano per la libertà espressiva del proprio lavoro, secondo il pensiero espresso nell'estate del 1967 durante una lezione tenuta presso l'Università di Harvard da Robert Motherwell, uno degli esponenti più noti dell'espressionismo astratto. Ci sono momenti in cui un pittore è costretto a spiegare il suo approccio verso la pittura. A me, ad esempio, piacerebbe sentire che cosa Joost ha da dire riguardo al suo utilizzo dei colori e al perché alcune volte risultino così diretti, mentre altre volte sono screziati e variegati. Mi piacerebbe che lui spiegasse il motivo per cui onde e curve prendono il sopravvento sugli angoli nella sua pittura. C'è poi la questione del posizionamento verticale nei suoi paesaggi irreali, sia marini che terrestri, e il motivo per cui funzionano a dispetto del più convenzionale orientamento orizzontale. La questione degli elementi verticali e orizzontali della pittura era già stata affrontata in precedenza nel 1917 negli scritti di un matematico e mistico olandese di ispirazione hegeliana di nome Schoenmaekers, il cui lavoro ebbe un'influenza importante su Mondrian. Questo genere di speculazioni e gli scambi di opinioni per via orale, anche tramite traduzione, sono una conseguenza naturale implicita nello stesso atto del dipingere.
Ci sono in effetti occasioni in cui pare più che lecito esprimere dubbi, un modo di pensare che i pittori in generale farebbero bene a considerare. In altre situazioni il linguaggio gioca un ruolo importante, per non dire basilare, specialmente quando un certo tipo di opacità visiva impedisce di cogliere il vero senso di ciò che un artista sta cercando di rappresentare in termini astratti. Entrambe le direzioni sono quindi accettabili, sia come conseguenza dell'insorgere di dubbi che come necessità naturale del linguaggio usato. In ogni caso, anche il contesto di queste enunciazioni ha la sua importanza. È risaputo che linguaggio e dubbio si alimentino reciprocamente nelle opere d'arte come controparti vitali di presenza e assenza, un bilanciamento richiesto dalla pittura come mezzo di sopravvivenza, specialmente nel momento in cui cavalcano l'onda, fissati al culmine di un impulso espressionista, un sogno veritiero, appena incominciato. Quando è l'atto stesso del dipingere a suscitare dubbi, il conflitto fa sì che le potenzialità dell'artista si spingano ancora più oltre, contro il suo desiderio conscio, si ritraggano per lasciare spazio alla riflessione oppure sublimino il conflitto per poi definire la pittura attraverso tutti i suoi difetti come un'impresa eroica nella sua capacità di conservare un'apparenza di realtà tattile in mezzo a questa pestilenza virtualizzata infestata dalla velocità, dove il fremito della sensazione può ancora essere presente. Le opere di Joost de Jonge ci offrono qualcosa da sentire e toccare, anche se solo arbitrariamente, ovvero la storia di ciò resta della consapevolezza umana, la deriva del dilemma neo-modernista, secondo cui ogni minimo elemento è tanto importante quanto l'eco rimandata dai dipinti stessi.
Ciò che trovo interessante nel lavoro di Joost de Jonge è l'estrema difficoltà a parlare delle sue singole opere estrapolandole dal contesto globale in termini diversi da una critica puramente formale o accademica. Se le parti sono estremamente significative in relazione al tutto, il linguaggio formale del passato si rivela inadeguato, sia che venga decodificato da un punto di vista americano che europeo. Ritengo più opportuno prendere in prestito l'espressione di McLuhan "riconoscimento degli schemi" o l'elusiva metafora di "eyewash" (che si potrebbe tradurre come "filtro offuscante") del regista cinematografico Robert Breer. Questi termini sono virtualmente intercambiabili al punto da confluire nello stesso significato. Entrambe le espressioni considerano il tutto come un'estensione delle parti. Tutti i quadri di Joost contribuiscono alla creazione di uno schema composto da pixel orientato verso una rappresentazione concettuale, nonostante l'immagine nel suo insieme culmini in una forma espressiva. Personalmente, trovo l'obsolescente terminologia utilizzata in relazione ai quadri di Joost terribile, se non addirittura dissuasiva. In tali occasioni, critiche o razionali che siano, i termini usati semplicemente non consentono una fruizione adeguata delle sue opere. Potremmo definirli leggermente stonati, nel senso che non riconoscono la motivazione fenomenologica quiescente nelle ombre tramite la quale si palesa l'infrastruttura fantasmagorica così evidente nelle sue creazioni. Joost de Joost è un artista difficilmente inquadrabile. Si potrebbe dire che graviti in una stratosfera neo-modernista dove la pittura insiste nell'essere presente non semplicemente come un mezzo, bensì come la verità della materia.
E riguardo all'archeologia dell'individualità? Chi è la persona? Attualmente sto leggendo Jung e mi ritrovo spesso a pensare all'individuazione. Per questo onnivoro pupillo di Freud, l'inconscio era sepolto sotto il simbolismo della pittura. Per Jung la fonte di ispirazione della pittura risiedeva nei sogni, dove i simboli vengono dapprima generati e infine realizzati attraverso il loro inconscio passaggio nell'individualità. Si potrebbe affermare che l'apertura mistica della psiche dell'artista domini nei sogni dell'individualità perduta, eternamente in cerca di un punto di equilibrio. Questo concetto potrebbe concretizzarsi nell'atto del dipingere, che Jung definiva come l'arte di produrre simboli nel senso più completo. In casi simili, la pittura offriva la possibilità di ricostruire frammenti del non io simbolico, riportandoli in vita in un sé olistico funzionale.
I quadri di Joost de Jonge sono opere autoproclamate sull'archeologia dell'individualità (o dell'esistenza) nel senso attribuito a tale concetto da Jung. Sono la ricerca di una verità simbolica, rivelata nel corso dei sogni. Mi impressionano in quanto opere semi-inconsce, fertile terreno per l'emergere di simboli attraverso cui ristrutturare il sé. I quadri in questione vanno verso l'individualità, dissotterrando i resti dell'io perduto e ricongiungendo tra loro i frammenti in modo tale da rendere euforico l'apparato sensoriale e conferire energia all'opera in esecuzione: la reinvenzione della pittura come un atto solitario, estrapolato dalle molteplici questioni che turbano e affliggono la nostra consapevolezza sensoriale.
I dipinti di Joost sono astratti, ma non possono essere definiti una forma di espressionismo astratto. Nonostante io abbia suggerito la presenza di contenuti espressionistici in alcune opere di Joost, il senso complessivo dei suoi quadri non è quello. Per quanto ricchi di forme vibranti, motivi e colori, del tutto assente è in essi il concetto formale di campo pittorico. La campitura intesa come "campo di colore" (color field) è un concetto più americano che europeo. Seppur riconducibile ai Paesi Bassi (Les Pays-Bas), il campo vasto non ha alcuna relazione, per quanto ne so, con la storia della pittura olandese. Non intendo con questo tenere in poco conto il sublime, che è probabilmente ciò che io intendo per contenuto espressionistico nel lavoro di Joost, ma il sublime non è contingente nel campo. Ne consegue che la composizione conserva un ruolo integrale in queste opere perfino quando il metodo di composizione delle medesime viene intenzionalmente sminuito per lo meno al livello di un processo decisionale predeterminato iperconsapevole del suo lavoro.
Altrettanto si potrebbe dire riguardo al suo senso dello stile o forse del suo imbarazzo nei confronti dello stile. Ogni quadro diventa alla fine una sorta di minuziosa frantumazione che devia dall'uniformità stilistica. È proprio questo che fa progredire il suo lavoro, conferendogli quel senso di archeologia in relazione al sé. Ma gli scavi si svolgono nello stesso sito archeologico ogni giorno? Forse no. Ho l'impressione che Joost de Jonge sia posseduto da uno spirito itinerante mentre vaga da un luogo psichico assoluto a un altro in cerca di nuovi reperti. Questo artista originale riesce a mantenere la sua arte pittorica vicina alla terra, per quanto paradossalmente in modo etereo, allontanandola enfaticamente dagli ideali neoplatonici. Parlare di trascendenza, nelle sue opere, parrebbe fuori luogo. L'artista pare invece librarsi da un sito archeologico a un altro, da un giorno al successivo, in una realtà che si trova tra la terra e il cielo.
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LA PENSA BILITÀ
DI UN’ EROICITÀ
GOTICA
GUARDANDO
I QUADRI DI JOOST DE JONGE DA HANS THEYS
MENTRE STO SPROFONDATO, nello studio dell’artista, in una poltrona, circondato da centinaia di libri impilati, e delizio il palato con tè e cioccolata, mi viene in mente una frase di Marcel Jouhandeau: “L’unica cosa importante è essere un uomo come tutti gli altri; magari, se possibile, un po’ più modesto, un po’ più semplice”.
Una frase che un giorno ho collegato con un’altra, trovata nei diari di Kierkegaard: “Di fatto quello che la gente considera il più grave dei delitti è non essere come gli altri.” Ambedue le frasi si riferiscono all’individuo anomalo, eccentrico, all’omosessuale sposato (Jouhandeau), al solitario che si è trovato a vivere in un mondo miserabile (Kierkegaard), ma si riferiscono anche all’orgoglio e al destino di non appartenere al gruppo, alla tribù
o al clan. Nelle antiche culture le differenze tra gli individui venivano siglate con un nome, e in tal modo abolite. Per esempio, dando a ciascuno un nome unico o conferendogli un attributo ispirato dalla diversità della natura. Questo diritto di essere speciali salvava l’unità del gruppo. È quello che oggi si sta cercando di fare in alcuni Paesi democratici, nei quali i diversi modi
di affrontare la realtà possono completarsi a vicenda, e
non si escludono necessariamente.
È qui che traccia il suo sentiero l’artista: deve svincolarsi dai canoni, se vuole creare qualcosa di personale, ma sa allo stesso tempo di essere legato alla tradizione che lo ha formato. È qui l’origine del dramma greco, che per me non è soltanto un’ammonizione purificatrice rivolta ad eroi ribelli, ma un preciso atto di nascita del singolo che emerge dal gruppo, evidenziato dal modo in cui la voce singola si svincola dai ritmi monotoni del coro.
È qui che vedo pure l’avventura pittorica di Joost
de Jonge e una spiegazione della forma dei suoi quadri, che fluttua tra un approccio controllato, quasi spiritualizzato, e una materialità liberissima, espressionistica, rivoltosa. Il primo metodo lo riconosciamo nelle opere che presentano una superficie quasi levigata e piani ondulati, di diversi colori; il secondo si manifesta soprattutto nelle sue improvvisazioni minori, sperimentali. Tuttavia nella maggior parte delle sue opere i due elementi sono
compresenti, in dosi diverse. Per esempio là dove,
in quadri dalla superficie piatta, uno dei piani è dipinto in modo che esprime ribellione. Avvertiamo continuamente un dialogo con illustri colleghi,
come ricerca non di una sintesi, ma di un’evoluzione ininterrotta, e un andare su e giù, danzando, saggiando, esplorando, provando, ricominciando, incominciando, rifinendo, inciampando, come sul campo di un’eterna battaglia, in cui l’eroe rimane pur sempre un essere umano, un mortale, e tuttavia si distingue dai suoi commilitoni, come avvolto in una luce divina.
Anche se esercitano su di me un’attrazione i quadri piatti, levigati, formati da sottili strati di colore trasparente, a volte ‘pitturati’ con il pestello grande,
per la pazienza artigianale che emanano, che non fa mai pensare a controllo, per le numerose associazioni che rievocano con altri quadri, quasi una forma di neomodernismo, ma anche per la ripartizione delle superfici e il senso cromatico, anche se queste opere
mi attraggono, godo, tuttavia, di un contorno sporco (per esempio se lascia intravvedere, parzialmente risparmiata, la fase dello schizzo, ma anche se una lineaè stata tracciata a scatti o diramandosi in più parti), o mi rallegro nel contemplare un rosa dipinto a bagnato su bagnato e tratti di pennello verde intenso, da qualche parte nell’angolo in basso a destra di un quadro. Sorprende, per esempio, in queste parti più selvatiche, la ricchezza cromatica degli ampi tratti di pennello,che fanno pensare, in modo totalmente peculiare, ad Appel oppure a De Kooning, ma per la loro scarsità compaiono allo stesso tempo come trattini ingranditi di Van Gogh. Non è mai un pittore scanzonato, ma nemmeno si lascia rinchiudere in una figura stilistica o in una recitazione prevedibile.
Guardando l’opera di Joost de Jonge ci sopravvengono numerosissimi ricordi, soprattutto di pittori come Cézanne, Picasso, Bram van Velde, Mondriaan, Fernand Léger, e di molti, molti altri, ma anche di icone russe, di silenziose pitture gotiche; e ricordiamo l’interessante osservazione di Rodin secondo la quale Michelangelo era, a pensarci bene, un artista gotico. Joost De Jonge è un artista gotico che ha recepito l’ellenismo e non lo vuole adottare del tutto, un greco dell’età arcaica che scrive una tragedia attica, unselvaggio che pensa in libertà e tesse tappeti geometrici, un artigiano che apparentemente crea bad paintings come se stesse imbrattando, un uomo che dipinge pensando, e, certamente, dipingendo, pensa.
Montagne de Miel, 25 aprile 2014
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JOOST DE JONGE
Una lettera a Vincent
Arles
È giunta la mezzanotte, ma avevo ancora il desiderio di scriverti. Tu non sei qui con me e vorrei vederti, ma talvolta ho l’impressione che non siamo lontani.
Sappi che è stato molto piacevole e confortante per me ricevere la tua visita inaspettata, vederti là in piedi, nell’atrio dell’albergo in Place de la République, con addosso i tuoi abiti macchiati di colore. Proprio come te, io concepisco e sogno la nuova arte, anche se il mio sogno è diverso: è soprattutto una danza di colori, una musica che forse non incontrerebbe pienamente i tuoi gusti. Nell’ultima lettera mi hai raccontato di tuo nipote, peraltro tuo omonimo: spero che stia bene e ti prego di fargli giungere i miei più sentiti auguri per il suo futuro; auguro altrettanto bene a Jo e a tuo fratello.
Al momento ho un paio di tele sui cavalletti, disposte in fila nel mio atelier. Non si trovano realmente in fila, ma raggruppate e disposte una dietro l’altra: una al centro e altre due dietro, poco discoste da questa. La posizione non corrisponde ad un ordine gerarchico, ma forma, piuttosto, un movimento musicale. Un triangolo nello spazio, un triangolo composto di forme quadrate, che mi fa subito pensare alla Santa Trinità e agli apostoli, che ci hanno trasmesso la dottrina... In questo modo mi piace riflettere sul movimento nello spazio, sullo spazio oggettivo e su quello delle mie associazioni mentali, omogeneità di forme, ripetizione e un certo spostamento che fa sì che, mentre tutto resta uguale, qualcosa si muova. Mi trovo nello spazio con la funzione di messaggero, viaggiatore di luce. Il lavoro mi assorbe completamente, ormai fino al punto che anche i miei pensieri sono fagocitati nel turbine della mia arte pittorica. Nonostante i miei ampi ragionamenti, ciò che appare nella sua essenza oggettiva si converte ogni volta, nel pensiero, in un riflesso dello stato elevato dello spirito. Ho la sensazione di dirigermi tranquillamente, a mio agio, verso l’uscita di un labirinto e, senza conoscere il percorso di ritorno, trovarmi nuovamente al centro di quel labirinto. Mi sento spoglio e solo, nel vuoto di ciò che vedo soltanto come un addio compassionevole da tutto ciò che mi è dolce e familiare; tuttavia, solo qui sono me stesso e non posso sfuggire, dovrò sistemare qui un divano-letto, per poter anche un po’ riposare e forse formulare una nuova visione. La realtà nel suo totale non risucchierà più il sentimento umano, quello che sono, chi sono in questo tempo, sempre diverso.
L’estate scorsa ho inviato in Italia un carro carico di tele. All’arrivo a Roma, pare che la galleria avesse chiuso i battenti, senza preavviso. Ho comunicato al commerciante, un grande esperto d’arte, che non intendevo inviare le tele ad un altro indirizzo: occorre essere decisi in queste circostanze, dal momento che neppure i galleristi sono poi tanto gentili e disponibili nei nostri confronti. Comunque sia, sono stato assalito da una specie di furia, che adesso ho sotto controllo, ma che allora mi dominava: non ho potuto fare a meno di reagire con violenza causando danno a me stesso, cosa che talvolta faccio, ma sono certo rimasto fedele alla mia indole, vero? Non è questo ciò che più conta?! È toccato ovviamente a me pagare le conseguenze del danno che mi sono inflitto e sono padrone di farlo! Anche tu sai come vanno queste cose!
Gauguin avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che, nonostante tu lo ritenessi il migliore, lui non era presente nel tuo mondo del sentimento, nel tuo mondo di arte pittorica spirituale: hai dato tanto e hai ricevuto così poco in cambio! È bello che ti abbia di nuovo scritto, mosso probabilmente dal rimorso per aver deluso un collega artista così compiacente. Caro Vincent, è opportuno tener presente che ognuno ha diritto di preservare il proprio peculiare modo di essere e tu sei come un vortice: i tuoi pensieri risucchiano tutto, allla ricerca di materiale utile per il tuo lavoro. Certo, il tuo lavoro, che è in continua crescita e si muove come un viaggiatore attraverso la storia dell’arte, il tardo Romanticismo, dove oltre ogni valle se ne svela un’altra, aprendosi ogni volta verso l’infinito.
A proposito di quel gatto nero che hai dipinto nel quadro che rappresenta il giardino di Daubigny, non pensi che sia troppo grande? Ho visto questo tuo lavoro a casa del tuo amato fratello a Parigi: hai espresso bene il movimento, è così che si muove un gatto, curiosando in giro, a guisa di un predatore che non ci ispira timore. Il tocco del tuo pennello è fine: l’accettazione e l’abbandono della lotta ti hanno restituito leggerezza, sebbene tu sia ancora disperato, pieno di dubbi circa la tua vocazione. In futuro sarai capace di toccare l’anima della gente, questo è certo: nessuno può rimanere indifferente osservando ciò che hai voluto esprimere, ad onta del fatto che ormai è evidente la probabile inutilità di tutto; sebbene abbia pagato troppo caro per qualcosa di inutile, l’hai vissuto intensamente e sei ancora con la tavolozza in mano e il colore sulla pelle. Proprio come me, non ti stanchi mai di dipingere. È la nostra raison d'être, esistiamo grazie alla smania per l’arte pittorica e la forza di quest’ultima determina l’intensità delle nostre sensazioni di vita, del nostro respiro. Oltre al colore, il tratto di pennello contiene respiro, aria e profumo, ocra scuro, grano fiammeggiante alla luce, una promessa di abbondanza, cibo per un nuovo giorno, raccolto, un magazzino ben rifornito.
Lascia che la nuova arte pittorica convogli allo sguardo dell’osservatore ricchezza di sensazioni e colori, una vasta gamma di associazioni mentali, mantenendo allo stesso tempo una sobria onestà, che si esprime senza artifici. Un’onestà autenticamente riservata, che non si rivela facilmente: falla trapelare, come un esempio illuminante, come un’alba, ma non priva di profondità, di riflessione.
Ti dovevo ancora scrivere riguardo alla questione dei colori complementari, che attualmente ritengo superata, non senza conseguenze: è indispensabile che prevalga in un campo dove il sentimento dovrebbe avere la meglio? Sono molto più propenso a considerare le armonie dei nostri predecessori. Osserva ancora una volta il lavoro del nostro amato...
Robert Morgan:
Joost de Jonge nei suoi quadri più recenti
Sapevo che Joost de Jonge, per le sue opere più recenti, ha voluto trarre ispirazione dalla musica e dalla grande tradizione dell’arte moderna europea, ispirazione che si avvale anche di stimoli e influssi provenienti dalla poesia e dalla riflessione filosofica. Quelle che, però, vorrei evidenziare qui sono due altre caratteristiche della sua pittura: l’elementarità e la freschezza. Chi guarda un suo quadro, e poi un’intera serie di quadri suoi, non pensa per nulla a influssi e riecheggiamenti. L’impressione che si ricava dalle sue opere è il contrario: quella di una forza fondamentale, di un’immediatezza elementare. Persino un osservatore ignaro di arte occidentale – per esempio un ambasciatore di un altro pianeta – potrebbe godere dei colori e delle forme, dei contrasti e delle sorprese, dei rapporti e collegamenti reciproci; anche se è probabile che un esperto o un appassionato di arte li colga meglio.
Quello che, soprattutto, ammiro delle opere di Joost è l’immediatezza, la fantastica giocosità, la gioia pura di comporre con forme robuste e il piacere di improvvisare con sfumature di colori. Le sue opere sono spontanee, frutto dell’entusiasmo poetico di chi sa giocare con complementi e contrasti, con il grande e il piccolo, il grosso e il sottile; è uno scontro tra colori che ora risaltano in primo piano, ora cedono il passo, di campi che ricevono energia grazie a sorprendenti sottofondi.
C’è già chi ha segnalato l’uso che Joost fa della sinestesia, vale a dire la percezione delle impressioni proprie di un senso tramite un altro senso: udire il visibile o avvertire il colore di una forma tangibile. Goethe descriveva una cattedrale come ‘musica congelata’. Baudelaire era convinto che tutti i sensi, nel tempio della natura, interagissero tra loro. Rimbaud attribuiva a ogni vocale un colore. Gli psicologi ci fanno sapere che la sinestesia suscita in noi una viva impressione, e conferisce a tutte le arti una dimensione in più, perché ci ricorda le nostre primissime esperienze sensoriali; i sensi dei neonati, infatti, non sono ancora separati tra loro, e tutte le esperienze sono pure e semplici, senza nome né definizione. In quell’epoca della nostra vita un suono, un raggio di luce, l’odore della pioggia erano per noi esperienze intense, non contaminate da prevedibilità o assuefazioni. La nostra consapevolezza, la nostra capacità di godere, derivano da questo contatto originario con il mondo che ci circonda.
La bellezza dei quadri di Joost risiede nella sua capacità di sgomberare ogni accumulo di supposizioni e prevedibilità, di smantellare trite convenzioni artistiche, restituendoci il senso primordiale del colore e della forma, l’equilibrio di forma e volume, di linea e spazio, delle nostre primissime percezioni. Lui stesso ci parla della scintilla dalla quale scaturisce ogni opera, scintilla che, però, rimane sempre un mistero. Suppongo che nemmeno lui abbia un’idea precisa di come lo fa, e forse nemmeno gli interessa saperlo; proprio come non interessa al compositore sapere com’è che riesce a comporre armonie e melodie perfette, o al matematico sapere com’è che riesce a visualizzare i rapporti nascosti tra i numeri. Joost sa quali sono le cose che lo ispirano e lo aiutano a raggiungere quello stato di immaginazione nel quale già al momento dell’abbozzo sa scoprire che cosa intende fare, in esperimenti scherzosi e spesso ardui, congiungendo, separando o affiancando l’uno all’altro blocchi e ritagli del suo arcobaleno personale.
Come un poeta deve trovare in se stesso quel luogo recondito, sepolto sotto uno strato di convenzioni e cliché, quella profondità del suo essere dalla quale la voce scaturisce e risuona con la massima forza, dove le parole sono fresche e inevitabili, come se si sentissero pronunciare per la prima volta, anche Joost ha trovato un sentiero, o più sentieri per avventurarsi nel più profondo di sé, dove può trovare essenze visive che sono tutte sue, ma allo stesso tempo possono essere riconosciute da chiunque le veda.
Per quanto la sua arte abbia qualcosa di ciò che alcuni chiamano ‘primitivo’, essa è anche il contrario della primitività, perché è frutto di anni di dedizione all’arte e all’esercizio della pittura, e si arricchisce dell’influsso di altre arti, tra le quali soprattutto la musica. L’arte migliore è quella che sembra essere sbocciata spontaneamente in un solo momento, e dalla quale sono sparite le tracce della meditazione e della fatica di cui è frutto. Sembra quasi che Joost crei, nei suoi quadri più recenti, un mondo che non abbiamo mai visto prima, ma riconosciamo subito: un paesaggio incantato di percezione elevata e di energia mentale concentrata, un’inquadratura dopo l’altra, una combinazione dopo l’altra, mentre seguiamo l’artista tra le meraviglie che incontra nel corso del suo viaggio.
Infine vorrei segnalare quella qualità dei suoi quadri che posso menzionare soltanto con la parola “sincerità”, la loro stabilità e immediatezza, la loro integrità. In ogni quadro si avverte l’impronta del suo carattere, della sua fiducia in se stesso, del suo affetto, che cerca un collegamento con il mondo che ci circonda, e con un’umanità che aspira a una nuova visione autentica.
Robert Ray Morgan, professore di Lingua e letteratura inglese della confraternita Kappa Alpha, gennaio 2011.
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NEL DOMINIO DELL'EKFRASIS I QUADRI PIÙ RECENTI DI JOOST DE JONGE
Peter FRANK
Nella produzione di Joost de Jonge degli ultimi anni si può riconoscere una svolta, uno di quei periodi di rapida evoluzione che non sono inconsueti in un artista, specialmente se ancor giovane. Non è che De Jonge abbia abbandonato del tutto quello stile proprio e distintivo che ha fatto la sua fama internazionale: i colori vivaci e le forme sensuali nettamente delineate; quella che è cambiata, nei suoi quadri e disegni, è la composizione, perché nuovo è lo sguardo con cui li concepisce. Per lui i testi dei filosofi e dei poeti non hanno perso nulla della loro importanza, e lo stesso vale per il modo in cui si sente legato a tutta la storia dell'arte, soprattutto al mondo concettuale e idiomatico del modernismo: un legame che, anzi, in lui si è rafforzato. Adesso De Jonge coglie la sua motivazione in altre cose, non del tutto estranee a quelle che erano prima le fonti dei suoi stimoli, ma diverse da queste. In conclusione: questo è un momento decisivo della produzione di De Jonge, nel quale la sua arte – in apparenza così spontanea nelle sue origini e nella sua espressione – non soltanto si proietta fuori da se stessa, ma punta a una meta situata fuori dall'opera, a un punto di convergenza con espressioni specifiche delle aspirazioni dell'essere umano. Per molto tempo De Jonge ha ricavato la sua motivazione da fonti non visive, e adesso l'arte che per lui svolge il ruolo più determinante è la musica.
L'arte dei suoni – o meglio dei ‘suoni ordinati’, secondo la definizione di musica data da Edgard Varèse – è altrettanto distante dalle arti visive quanto dalla letteratura; anzi, forse è ancora più distante, perché l'espressione verbale può suscitare una sensazione visiva, sia sulla carta sia nella presentazione orale, ma le forme usuali di espressione musicale non hanno questa possibilità: le due esperienze rimangono pur sempre distinte, per non dire distanti. Non mancano, naturalmente, le occasioni nelle quali le arti figurative sono associate alla musica – si pensi alla lirica e ai concerti pop – ma al di fuori di tali ‘spettacoli multimediali’ è raro che si realizzino fusioni di suoni e immagini. Nonostante tutti i tentativi fatti, soprattutto da un secolo e mezzo a questa parte, di realizzare una compenetrazione perfetta, tali espressioni artistiche intermediali non sono ancora uscite dalla fase sperimentale. Forse è che non riusciamo nemmeno a immaginare una fusione intermediale tra musica e arti figurative, mentre riusciamo a farlo, per esempio, con il binomio arti della parola-arte dei suoni oppure coreografia-arti figurative. È possibile che le cose cambino tra non molto: con tutti i mezzi elettronici di cui disponiamo per formalizzare e fissare domini intermediali, è molto probabile che gli stimoli estetici e sociali dai quali un tempo sono sorti l'impulso creativo e l'azione di eroi dell'audiovisivo quali Alexander Scriabin, Wassily Kandinsky, Oskar Fischinger e Iannis Xenakis, generino prima o poi artisti per i quali la compenetrazione di suoni e immagini sarà la cosa più ovvia e normale. Non ci siamo ancora arrivati, e, in attesa che si compia definitivamente il passaggio dal mondo analogico a quello digitale, si presentano alternative di ogni genere: anzi, mondi nuovissimi, ricchi di possibilità.
Una di queste possibilità è offerta proprio dalla produzione più recente di Joost de Jonge. Forse la sua formula è piuttosto semplice, ma questa semplicità la rende più convincente, oltre che comprensibile per un pubblico più ampio: ragion per cui saranno in più a goderne. La sua pittura è una risposta alla musica, una risposta sia allo ‘stato della musica’ sia a composizioni musicali specifiche. Per quanto riguarda lo ‘stato generale della musica’, De Jonge conosce bene il detto d Walter Pater secondo il quale “tutte le arti tendono costantemente allo stato della musica”, vale a dire uno stato di commozione diretta, non filtrata dal significato o dall'esecuzione. La musica, secondo Pater, ci colpisce senza bisogno di trasmetterci informazioni; come gli odori, i suoni raggiungono i nostri sensi senza necessità di interpellare la nostra ragione. Seguendo l'esempio degli inventori dell'Astrattismo (che perseguivano la realizzazione dello stesso ideale delineato da Pater) De Jonge ‘solidifica’ la musica in forme, colori e composizioni che non rinviano direttamente a quella musica (ma ad essa alludono in modo inevitabile). Quanto alle composizioni musicali specifiche, De Jonge dà forma e tonalità a immagini speculari visive e solidificazioni di specifiche opere musicali – ordinamenti di suoni, come direbbe Varèse – in forma di strutture ottiche;
E qui – come, del resto, in tutta la sua ricerca intesa a produrre ‘musica per gli occhi’ – l'interesse di De Jonge si dirige al dominio dell'espressione artistica interdisciplinare: un dominio che conosciamo molto bene, ma del quale raramente esploriamo a fondo la complessa struttura. Nella pratica dell'arte figurativa moderna l'evocazione di esperienza musicali è un fenomeno piuttosto diffuso; ma non abbiamo ancora saputo identificare in modo convincente le differenze tra le maniere diverse in cui gli artisti hanno scelto di realizzarla. In questo senso, sull'onda della tendenza delle notazioni grafiche e dell'arte concettuale, la notazione musicale è diventata ormai un ramo specifico delle arti figurative. D'altra parte, è almeno fin dalla fine dell'Ottocento che la sinestesia – l'attivazione di percezioni in uno dei sensi mediante lo stimolo esercitato su un altro senso – è fonte di ispirazione per artisti (e compositori) – alla pari dell'approfondimento del concetto di ‘Gesamtkunstwerk’, lo spettacolo artistico totale, che per la prima volta (pur se in misura incompleta) è stato proposto al grande pubblico dalle ultime opere di Richard Wagner. Ekfrasis risale a un secolo e mezzo fa e si concreta in opere musicali quali Quadri di un'esposizione di Modest Mussorgski e Isola dei morti di Sergei Rachmaninov. Ma la sinestesia, il ‘Gesamtkunstwerk’ e l'ekfrasis sono tutte forme chiaramente delimitate di interfunzionalità tra arti figurative e musica. Tutte e tre suscitano uguale interesse, ma sono fondamentalmente diverse tra loro. Di per sé la sinestesia è un disturbo psicofisiologico, uno stato atavico e involontario, indipendente da qualsiasi branca delle arti, mentre il ‘Gesamtkunstwerk’ è un termine puramente culturale, con il quale la sovrapposizione ordinata di arti distinte si riassume in uno spettacolo unificato a livello concettuale, ma non a livello di esperienza. Anche l'ekfrasis è un concetto culturale, ma contrariamente al ‘Gesamtkunstwerk’ – come pure alla notazione musicale grafica – l'ekfrasis vuole conseguire equivalenza: conformare un'arte, e spesso un'opera specifica nell'ambito di un'arte, alla normativa di un'altra arte.
Joost de Jonge ha fatto la scelta consapevole di esplorare nella sua produzione e con la sua produzione le possibilità dell'ekfrasis. Già da bambino De Jonge si sentiva attratto dalla musica. La musica ha, nel bagaglio culturale di De Jonge, la stessa importanza delle opere filosofiche e delle poesie dalle quali egli ricava ispirazione; anzi, forse ha un'importanza maggiore, perché la musica non lo colpisce soltanto a livello intellettuale o estetico, ma anche in senso puramente fisico. È possibile che in ogni artista astratto si nasconda un musicista; ma tutta l'estetica di De Jonge, con la sua dipendenza da contrasti drammatici, equilibri sottili e – soprattutto nelle sue opere più recenti – dall'orchestrazione di forme, colori e superfici, intenzionale o no che sia, va caratterizzata decisamente come musicale.
De Jonge non si è dedicato all'Astrattismo – almeno a livello cosciente – per ‘avvicinarsi di più’ alla musica, ma le era già vicino per natura. Il tipo di figurazione visiva del quale si occupava all'inizio della sua attività di artista deriva direttamente, di fatto, dal simbolismo di Arnold Böcklin e di altri artisti fin-de-siècle, che con la loro opera hanno gettato quel ponte tra musica e arti figurative sul quale lavora adesso De Jonge. Per di più, come da lui stesso dichiarato, la risposta sinestetica svolge nel suo modo di lavorare un ruolo di non poca importanza. (“Il colore che vedo in un'opera” scrive De Jonge “non coincide con il modo in cui lo sento. Nella mente sento chiaramente un colore che collima con l'identità dell'opera; mescolo quel colore, e il risultato coincide con il mio sentimento, e deve fondersi direttamente con i colori e le forme dell'opera alla quale sto lavorando. È uno scambio continuo di dare e avere tra visivo e invisibile, tra materiale e spirituale, un dialogo ininterrotto tra contenuto e forma, in cui io, d'altra parte, lavoro partendo dal contenuto per conseguire la forma.”) Passato, però, a uno stile geometrico scorrevole, De Jonge si è reso conto – ha incominciato a vedere e sentire – che esprimeva la sua musicalità interiore, e questo senza orpelli, nel modo più puro e semplice. La musica, per lui, non è uno strumento metaforico; lui dà alla musica una forma concreta.
De Jonge si guarda bene dal collegare determinati quadri, o addirittura disegni, a opere musicali determinate. La sua ekfrasis non è una ‘traduzione’ letterale di suoni ordinati in figure ordinate, perché conosce troppo bene i pericoli ai quali si espone chi fa ‘traduzioni’ del genere, pur essendo un maestro come Vasily Kandinsky o Paul Klee. La loro intenzione non era, infatti, quella di fissare in un quadro un fenomeno sonoro: volevano soprattutto dare un'interpretazione del modo in cui la musica era da loro percepita – sia come ordinamento, sia come suoni – e del carattere trascendente che i suoni acquistano una volta filtrati da tale ordinamento. Così è stato possibile che Klee dedicasse un acquerello a un'aria di Mozart, e Kandinsky si è fatto ispirare – soprattutto tramite la propria sinestesia – dal secondo quartetto per archi di Schönberg; ma ambedue, ottimi conoscitori sia della musica sia delle arti figurative, hanno riversato nella forma materiale gli effetti emotivi e fisici suscitati in loro dalla musica. De Jonge, da parte sua, può ricavare ispirazione da un ampio repertorio di suoni ordinati (rispetto a Kandinsky e Klee ha il vantaggio poter accedere a un repertorio così ampio, grazie a registrazioni e trasmissioni TV e radio). I quadri e i disegni ekfrastici di De Jonge sono risposte al linguaggio musicale, a sensazioni musicali, a panorami musicali. Non dipinge strutture Bachiane o fantasie Debussyane: le sue strutture e fantasie rievocano direttamente Bach e Debussy – magari qui si avverte un po' di più la presenza dell'uno e là quella dell'altro – e su un'altra tela i colori più scuri e le forme più robuste potrebbero suggerire la presenza di Beethoven o Mahler o Bartók.
In primo luogo, anche De Jonge è compositore: lui non dipinge ispirandosi alla musica, lui dipinge come un musicista, coglie in maniera ekfrastica non una determinata sinfonia, una determinata sonata o una determinata aria, ma quello che per Pater è lo ‘stato della musica’. A volte il pittore crea coreografie di figure astratte dai movimenti violenti, su uno sfondo contrastante, e allora le figure stesse reagiscono a una musica che possiamo 'udire' soltanto attraverso le loro contorsioni. A volte allinea le sue forme in diverse file parallele, suggerendo l'idea di una partitura (e in tal caso, però, si tratta soprattutto di una parodia della notazione musicale). A volte De Jonge suggerisce la presenza del tempo, l'elemento distintivo della musica; oppure induce il nostro occhio a soffermarsi su un punto coronato, come per rendere visibile per noi un determinato accordo. Il suo è sempre, comunque, un modo di pensare musicale, come si evince dai suoi scritti e riflessioni. (“L'opera solidifica una nostalgia di chiarezza, un'ansia consapevole e inconsapevole dello spirito e dell'anima che bramano quel riposo eterno e quell'armonia che potrebbero essere visti come il luogo di nascita di molti. La molteplicità ritmica che tende alla quiete, ma che poi, cambiato in misura quasi impercettibile il punto di vista, appare essere in movimento costante…”)
Naturalmente, è un approccio che va chiamato innanzitutto neomodernista. Come già detto, tutta l'aspirazione a far collimare, quasi fondersi, tra loro la musica e le arti figurative (e altre arti) è tipica del periodo modernista dell'arte: oggetto di intense ricerche, addirittura inventata, nel primo modernismo, codificata nel periodo culminante del modernismo e suddivisa in sottocorrenti (happenings, intermedia, arte concettuale, ecc.) nel tardo modernismo. Il fatto che questo approccio riappaia ora nell'opera di un neomodernista sintetico come De Jonge, un uomo che sa esprimere al meglio la sua visione in un linguaggio e in una mentalità risorti a nuova vita, forse non è una sorpresa, ma è indiscutibilmente una conferma rinfrescante di principi e ideali costruttivi.
La cosa più convincente nelle opere recenti di De Jonge non è il rapporto con la musica, ma la maniera in cui la musicalità dell'opera fa da sostegno a un'ambizione spirituale più ampia. Questi quadri e disegni privilegiano la sua scelta incondizionata per una tonalità, non soltanto nella manifestazione, ma anche nella sensazione pressoché irresistibile di ciò che si può descrivere soltanto come una vivacità esuberante, l'ordinamento razionale di elementi magnifici che convergono a formare affascinanti composizioni piene di sorprese e di accenti sottili, che, nonostante la loro apparente semplicità, non si lasciano cogliere facilmente dall'osservatore. Il linguaggio formale di De Jonge ha molto in comune con i cartoni animati, per il suo spirito, animosità e vivacità, per la sua chiarezza e freschezza, per la sua elasticità e i passaggi improvvisi; soprattutto i suoi disegni sono pieni di colpi di scena maliziosi. Chiaramente la struttura implicita temporanea in cui sono contenute queste opere non è, tuttavia, la trama di un cartone animato commerciale, ma l'oggi che si arresta, lo stato continuo di divenire, che caratterizza le animazioni astratte degli ideatori cinematografici sperimentali modernisti: ed è questo, in conclusione, il dominio della musica.
“Per me è un dato di fatto” scrive Joost de Jonge, “che io una striscia di colore la percepisco come uno spazio, oppure come un fiume che scorre… e allora è importante soprattutto la forza dell'associazione, cosa di cui così mirabilmente Bachelard ci ha resi consapevoli”. Qui De Jonge cita il fenomenologo francese Gaston Bachelard, filosofo che ha esercitato una notevole influenza nel pensiero, e nella cui ‘poetica dello spazio’ si cristallizza lo ‘stato della musica’ di Pater come lirica visualizzata di un'avanguardia precedente. De Jonge confessa la sua parentela non solo con i suoi predecessori astrattisti e le loro aspirazioni extrasensoriali, ma parla anche dell'intensità dell'esperienza trans-ottica che cerca di cogliere nella sua arte, come pure loro cercavano di fare nelle loro opere. Le aspirazioni ekfrastiche di De Jonge vanno al di là della musica pura e semplice: sono un abbraccio ampio e avido – anche se non scevro di spirito critico – alla percezione in sé e per sé.
Los Angeles
Novembre 2010
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JOOST de JONGE: MagnificiGhirigoriScarabocchi
Di Dominique Nahas©2010
Gli scarabocchi di Joost de Jonge meritano per diversi motivi la nostra immediata attenzione, perché ci mostrano un importante sviluppo nel lavoro dell’artista. Le nuove opere conservano l’energia radiosa e vitalistica dei dipinti precedenti; tuttavia i ghirigori lasciano adesso emergere anche altre caratteristiche dell’autore. In contrasto con i piani essenzialmente ben organizzati, sinteticamente luminosi e neomodernistici, che testimoniano - sul piano cromatico - influenze dei movimenti de Stijl e CoBrA, i disegni a scarabocchi di de Jonge contengono per la prima volta una componente figurativa. In questo modo, il piano dell’immagine può essere suddiviso in più quadranti discreti (come in uno split screen). Alcuni esempi sono Module 11 e Module 13, dove le fasce delle tre parti sembrano esprimere tre mondi contemporanei ma distinti. In altri disegni gli elementi figurativi si presentano come piccole entità animate e fluttuanti, oggetti tridimensionali o elementi calligrafici in 3D, spesso dotati di fori e cavità, e che appaiono completamente sospese nello spazio. Queste particelle, con segmenti tridimensionali che contengono regolarmente parti striate, mostrano una sensibilità sinuosa e comica, che pare avere un’origine antropomorfa. Talora queste forme compaiono in uno spazio centrale, come in #39 jpg, e assumono un carattere smisurato e totemico, i cui contorni ricordano vagamente il Medio Oriente.
La parola “scarabocchio” è spesso usata in modo negativo e dispregiativo. Gli scarabocchi sono considerati forme di espressione del bambino, delle pulsioni istintive, o dell’Id irrefrenabile. Le persone “serie” non devono prendere sul serio gli scarabocchi. Vengono giudicati prodotti energetici disordinati e atavici, messi su carta in fretta e furia, e da dimenticare subito. Lo scarabocchio è, insomma, visto come un’espressione estetizzata a cui non va riconosciuto alcun valore intellettuale, ideazionale o iconografico. Parole con un’analoga connotazione dispregiativa sono “graffio”, “arzigogolo” e “cacografia”. Si sente nella lingua, nei suoni aspri prodotti dal corpo (l’ano, le viscere, e non le parti più elevate dell’organismo umano, come il cervello, lo spirito, l’anima). Lo scarabocchio appartiene - come direbbe Georges Bataille - all’umile e al basso. Gli scarabocchi nascono da un’energia debole. Per definizione, non possono essere impiegati in modo “produttivo”. Lo scarabocchio è una forma brutale - forse anche scaltra - di espressione, con cui ci si semplifica le cose (evitando un impegno onesto ed eticamente accettato). Lo scarabocchio è impertinente e non segue le regole di una “forma significante”.
Gli scarabocchi di Joost de Jonge possiedono un’energia giovanile e danno l’impressione di essere accidentali e schietti, come errori e sviste che - al massimo - sono residui inutili di un processo diretto verso uno scopo ben più nobile e alto: i dipinti dai colori accesi con cui l’artista si è guadagnato una notevole fama a livello internazionale. Ma naturalmente non è così: queste linee colorate “accidentali” sono in realtà opere d’arte assolutamente consapevoli e del tutto complete. Esse rispecchiano perfettamente la visione sviluppata da De Jonge nel corso della sua carriera. Come nei precedenti lavori, anche qui De Jonge analizza le energie fisiche, mentali e psichiche che attraversano il suo corpo mentre esegue questi disegni, in una consapevolezza priva di concentrazione, ma completamente presente a se stessa. Benché la forma schematica degli scarabocchi sembri suggerire uno scarso interesse e una mancanza di concentrazione, è vero il contrario. Gli scarabocchi dimostrano la sicurezza e l’abilità di De Jonge in questa forma di espressione: sembrano creati spontaneamente e senza sforzi. Si trovano in uno spazio di forme libere che ricorda quello di Calder e Miró, un universo pieno di energia dal carattere carnascialesco. Dirò probabilmente una banalità affermando che un autentico viaggio alla scoperta della cultura visiva nasce sia da un’assoluta libertà sia dalla necessità: eppure ciò emerge con assoluta evidenza nell’opera di De Jonge. Anche qui c’è quella inconfondibile punta di innocenza che permea le sue forme. Nel 1863 il critico d’arte francese Charles Baudelaire dichiarò su Le Figaro - in uno dei suoi saggi originari che sarebbero più tardi stati raccolti sotto il titolo Il pittore della vita moderna - che lo strato profondo dell’attività creativa “[...] non è altro che l’infanzia ritrovata per un atto di volontà”. Aggiunge Baudelaire: “E a questa curiosità profonda e gioiosa va attribuito l’occhio fisso e animalmente estatico dei bambini di fronte al nuovo, quale che esso sia, volto o paesaggio, decorazioni, colori, oggetti luccicanti, o la magia della bellezza corporea [...]”.
I disegni a scarabocchi di Joost de Jonge sono intrisi di vitalità, grazie alla suggerita interazione fra controllo e spontaneità che deriva dalla fusione della coscienza del bambino e dell’adulto. Nelle parole di Friedrich Schelling: “[...] L’arte rispecchia per noi l’unità di attività consapevole e inconsapevole. [...] L’essenza di un’opera d’arte è quindi un’infinità inconsapevole (sintesi di natura e libertà)”. Tali caratteristiche di integrazione sono alla base della sensibilità di De Jonge verso il desiderio di fondere e annullare gli opposti. Estremamente importante, infine, è il fatto che questi disegni costituiscano una riproduzione delle ricerche approfondite, e al contempo giocose, dell’artista nell’ambito delle nostre percezioni: che cosa e come percepiamo nel mondo, con la testa e con il cuore.
Dominique Nahas vive a Manhattan ed è curatore e critico indipendente. Nel 2010-11 è critic in residence presso la Hoffberger Graduate School del Maryland Institute College of Arts, ed è attualmente visiting critic alla Rhode Island School of Design. Nahas insegna critica d’arte come membro stabile del corpo docente presso il Pratt Institute e il New York Studio Residency Program.
La sua ultima monografia, The Worlds of Hunt Slonem, è stata pubblicata nel marzo 2010 per i tipi di The Vendome Press.
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L’uomo intuitivamente senziente
La terra è
fuoco coagulato
che vibra nel suo intimo
è ancora fluido
e continuamente in fiamme,
animale e uomo
vivono come la terra stessa.
Gli esseri viventi
non sono tutti i sospiri
della crepitante sfera di fuoco
che è la terra?
Visti così, vi paiono
intrecciati
ogni vita è un alito
del gas roteante
che si combina agli elementi.
Il fuoco interiore
è come nessun altro
brucia invisibile,
nascosto nell’eterea
nube umana.
Ecco l’essere dell’uomo
divorato in una forma extratemporale,
cerchi e ovali mulinanti
si innestano l’uno nell’altro come bolle di sapone
e rimangono inspiegabilmente insieme.
Da una specifica vibrazione
del divino
un individuo trae
la sua personalità
qui si definisce
lo spazio della sua anima
che respira e si muove
a colori.
Nel puro essere
che traslucido
come una vernice
giace sul mondo materiale
l’anima danza,
fantasmagorica.
Il fuoco della terra
brucia nell’uomo,
il sangue scorre
rosso come magma
nelle sue vene.
Se la sua coscienza è toccata
dai raggi di un sole
che lo chiama
attraverso la sua radiante fissità
a gettarsi in avanti
nella sua parte più intima
dove lo spazio è infinitamente
moltiplicato,
egli penetra
fino al riflesso del fuoco
almeno, così gli appare,
eppure è lì
che il vero fuoco
trova la sua origine
ed è esso stesso espirato e inspirato
come tempo coagulato,
la sua forma tangibile
è la volontà concentrata
dell’idea fuoco.
Il fuoco
che esiste come forza senza forma
come espressione di un volere spirituale,
è pieno di significato e di promessa;
un fuoco che brucia veramente,
indica l’immanente presenza
di un’altra dimensione
nota all’uomo intuitivamente senziente.
Joost de Jonge 2009